Una nuova epopea americana ha inizio in questo primo scorcio di Novembre, il nostro eroe, dopo un’attenta “pianificazione”, e vista la sua disponibilità in un periodo che in altri anni era congestionato da festival francesi, ha deciso di unirsi alla combriccola dell’Accademia Nemo che ogni anno attraversa l’oceano per approdare a Los Angeles per partecipare al CTN (Creative Talent Network).
Il CTN, per chi non lo sapesse, è una delle più importanti kermesse dell’animazione mondiale, un evento dove si riuniscono i più importanti professionisti del settore, si incontrano, si organizzano panels informativi, workshop tematici e dove gli artisti si scambiano informazioni e si riuniscono tra loro, e dove il gotha dell’animazione trova la sua massima espressione. La manifestazione, creata dalla fervida mente di Tina Price, deus ex-machina dell’intera organizzazione e icona indiscussa del settore, è allestita a Burbank, uno dei sobborghi di Los Angeles.
In realtà l’occasione è un misto di lavoro/vacanza, perché oltre a presenziare lo spazio alla manifestazione, ci sono anche incontri da fare, ma almeno per il sottoscritto, il solito vergognoso scansafatiche, si tratta prevalentemente di un minimo di rappresentanza a fronte di molta vacanza.
La comitiva è composta da ben sei persone, Luca, Fabrizio and daughters (Rebecca e Ginevra), ed io con mio figlio Alberto, che giustamente non ha voluto lasciarsi sfuggire l’occasione ci completare il tour americano, che nel lontano 2014, era rimasto orfano proprio dello scalo di Los Angeles, è privo delle relative attrattive.
Giorno 1
Partenza con volo Lufthansa (Air Dolomiti) per Monaco di Baviera, e poi rotta senza scalo per la capitale californiana. L’orario è improbo, si parte alle 6,20 da Peretola, per cui dobbiamo arrivare a Firenze il giorno prima, pernottare in loco, per avere la possibilità di prendere il volo ben molto prima dell’alba. Il portiere di notte dell’albergo dove avevamo prenotato una stanza, ci guarda stupiti quando gli diciamo l’orario di partenza: “Dormite poco”, ci dice quasi preoccupato per noi, con un pizzico di pietà nei nostri confronti. Ha ragione il buon uomo, infatti il rendez-vous all’aeroporto è alle 3,45, esattamente in linea con le raccomandazioni della compagnia, per scoprire però che l’aeroporto apre alle 4,00, e a noi, insieme alla già lunga fila di passeggeri formatasi, dobbiamo attendere fuori prima che ci vengano ad aprire i cancelli.
Leggera colazione e check-in necessario solo per imbarcare il bagaglio in stiva, visto che l’avevamo già fatto on-line il giorno precedente per poter avere tutti i posti vicini.
Volo per la Germania tranquillo ed in orario, con una splendida vista su un’alba rincorsa dalla direzione del fuso e che non aveva voglia di nascere, nascosta com’era tra nubi basse e con un colore rosso che sembrava volesse accendere il mondo. Nel capoluogo bavarese, attesa di oltre tre ore in cui il gruppo ha avuto il tempo per compattarsi conoscendosi meglio, (la giovane prole non si conosceva), di giocare a carte e di cazzeggiare il giusto per smussare gli spigoli della diffidenza naturale portata dalla privazione del sonno ed entrare nella giusta sintonia del viaggio. Adesso, imbarcati sul volo LH 452, stiamo in trepidante attesa delle leccornie della prima pausa pranzo, per vedere la compagnia teutonica con che prelibatezze conquisterà i nostri palati.
Il volo é lungo, molto, dodici ore di seduta, nonostante mitigata dalla visione di ben tre film e intervallata da pranzi, spuntini e bevute, rimane sempre estenuante.
La sosta all’aeroporto di Monaco di Baviera, prima della partenza per gli Stati Uniti. ingannata da veloci partite di briscola a carte.
Da Monaco, il volo è andato a nord, per trasvolare quasi fino al circolo polare artico, a nord della Groenlandia, per poi scendere in picchiata verso sud e attraversare tutto il Canada. Il pranzo, che attendevo con una certa trepidazione, visto l’ora della colazione, si è basato sulla scelta tra pollo e ravioli, e abbiamo propeso per i secondi, non tanto per nostalgia di casa (sempre cattiva consigliera all’estero), ma per il dubbio che il pollo fosse la solita fettina incolore e insapore tipica dei polletti da viaggio, ed è stato oggettivamente così. I ravioli, seppur pasticciati, alla fine non erano poi neanche così male e si sono lasciati mangiare col nostro sempre usuale entusiasmo, poi il solito paninozzo col un tocchetto di formaggio (aveva le sembianze del brie, ma non ci giurerei), e un quadratino di dolce alla frutta.
Poi la visione di “The Northman”, un film tutto vichinghi, vendetta, sangue e morte, sul quale mi ha preso anche un naturale abbiocco, visto la corda monotematica che corre tutta lungo l’intera durata del film fatto di violenza, vendetta e sangue. Poi sono saltato a “Top Gun -Maverick”, con un Tom Cruise scatenato che mi ha piuttosto stupito, perché pur essendo un sequel, e quindi con tutti i crismi per essere deludente, forse l’ho trovato perfino più carino del primo, con maggiore azione e, trattandosi per un prodotto per i più giovani, e quindi immaginando che fosse stato pensato per chi non avesse visto il primo, l’ho trovato riuscito. Infine, “Nope” un thriller fantascientifico che avevo visto decantare sulla rivista di cinema che compro abitualmente e, anche in questo caso, il film mantiene ciò che promette, forse un po’ lento in certe parti, ma di quella lentezza congeniale al caricamento della suspence, un finale non proprio scontato ed effetti speciali perfetti per il film. Poi, a due ore dall’arrivo, nuovo spuntino a base di sandwich con salsa bernese e formaggio, non prelibata ma almeno saporita, uno yogurt e uno stickers alle mandorle.
L’arrivo è abbastanza in orario, e dopo un veloce cechi all’immigrazione, dove contro ogni pronostico facciamo velocemente, saliamo su una navetta che ci porta nelle spazio Uber dove andiamo a prenotarci il taxi per portarci all’albergo. Il viaggio è di oltre un’ora tra il traffico piuttosto intenso della città californiana. Al Marriott di Burbank prendiamo possesso delle camere, e dopo poco più di mezz’ora ci ritroviamo nella hall per andare agli Universali Studios per la cena, fuori dal parco a tema c’è una main street pieni di localini dove poter consumare la nostra cena.
Cena al Bubba Gump, nella parte commerciale adiacente agli Universal Studios che, a quell’ora era semideserta. Ma che fanno gli americani dopo le 20,00?
Pensavamo a dei canonici hamburger, ma l’Hard Rock Café dove volevamo dirigerci era chiuso per lavori di ristrutturazione e, a questo punto, abbiamo dovuto ripiegare su Bubba Gump, la catena di ristoranti a base di gamberi che hanno preso il nome di Forrest Gump e del suo amico Bubba. Cena a base di fritti a tutto spiano per una serata “leggera”, ma abbiamo poca scelta, siamo stanchi, è l’unico nostro miraggio è andare presto a letto, siamo in piedi da oltre 24 ore e siamo stanchissimi.
Domani, già prevista Disneyland.
Giorno 2
I biglietti per Disneyland li abbiamo già prenotati ieri, o meglio, siamo stati obbligati a farlo, anche perché la scelta era soltanto tra due giorni disponibili tra tutti quelli a nostra disposizione, gli altri erano tutti al completo. Tutti i biglietti d’ingresso vanno ordinati on line, perché non esistono più le biglietterie tradizionali, tutto deve essere fatto tramite internet e app scaricabili, per cui l’efficienza del vostro smartphone e l’affidabilitá della linea telefonica devono dare le relative garanzie.
Attraverso un’app particolare del parco può essere controllato in tempo reale la lunghezza della fila delle relative attrazioni per regolarsi di conseguenza è, almeno per oggi, giorno non festivo è assolutamente ordinario andavano da un minio di 45 a un massimo di 95 minuti, almeno per tutte quelle attrazioni che interessavano a noi. Per me sarà la terza volta, dopo quella fatta anche a Disneyland Paris, ma da quell’epoca sono cambiate molte cose, Disney ha acquistato altre realtà dell’entertainment come l’universo della Imagine Lights and Magic di George Lucas, ad esempio, e in questo caso il mondo di Guerre Stellari con tutto il relativo armamentario, è stato inserito nel parco a tema.
La fantastica cittadella dell’universo Star Wars ricostruita all’interno del parco di Disneyland, mille particolari e minuziosi dettagli per catapultarti nell’universo creato da Gerorge Lucas.
Partiamo infatti da lì, il villaggio futuribile che collega le nuove attrazioni relative a Star Wars è a dir poco fantastico, per me, oltre all’assoluta novità, è l’ennesima riprova dell’abilità di ricostruzione di ambientazioni da parte degli americani, esperienza maturata e sviluppata nell’allestimento di set per il cinema e che riproducono nel dettaglio più minuto, la realtà, anche quando questa è immaginifica. Qui sembra di vivere direttamente sul set e se vedessimo sbucare Luke Skywalker da un momento all’altro, lo saluteremmo tranquillamente come fosse il droghiere sotto casa. Chewbecca invece possiamo invece davvero vederlo in giro perché è uno dei charachter che circola liberamente nel parco. Ogni dettaglio è curato, ogni particolare sembra di uso comune anche quando dovrebbe appartenere ad un mondo futuribile, in ogni angolo c’è qualcosa che ti ricorda dove sei è serve a non farti mai uscire dall’ambiente in cui sei stato calato. Lungo i corridoi che costeggiano gli spazi adibiti ad accogliere le centinaia di persone in fila ci sono particolari, dettagli e oggetti posizionati in modo da giustificare l’habitat con una perfezione ed un’attenzione maniacale. Del resto, per chi non è mai entrato in un parco a tema Disney, deve mettere in conto che nel contesto della giornata il rapporto in percentuale tra il tempo di durata dell’attrazione e quello della fila è di 98 a 2.
Comunque, la prima attrazione da fare pare sia una garanzia, almeno dal prode Pacetti, esegeta, fan e totale appassionato della serie di Lucas, e che l’ha già visitata una volta, ed è: Millennium Falcon: Smugglers Run, quasi un’ora di fila per cinque minuti di una simulazione di battaglia e corse su un equipaggio stellare fatte da sei persone all’interno di un abitacolo di un ipotetico velivolo spaziale che che sono in accompagnamento ad un cargo stellare e devono guidare e sparare ad eventuali aggressori. È una corsa con sballottamento e sincronia tra movimenti dell’abitacolo e immagini che immergono nello spazio e nei panorami del film, un enorme videogioco interattivo che conquista con la verosimiglianza e la credibilità del mix di esperienze, un’attrazione davvero superlativa.
In dinamico gruppo a pranzo con menù tipicamente intergalattico, alla fine neanche troppo male. Da sx: il sottoscritto, Luca, Ginevra, Rebecca, Fabrizio e Alberto.
Di fronte alle truppe imperiali all’inizio dell’attrazione: Millennium Falcon: Smugglers Run.
Alla fine, le luci della sera fanno risplendere di mille colori il parco, e anche a quest’ora la visione è suggestiva.
Difficile non tornare bambini in queste condizioni, dove la lunga attesa ti introduce prima con l’ambientazione nel clima e poi con la performance finale ti concede solo puro divertimento. Pranziamo in un locale nello spazio Star Wars con menù tipicamente spaziale, come se questo volesse dire effettivamente qualcosa ma qui, giusto per fare un esempio, anche il marchio della Coca Cola rispecchia la grafica del pianeta su cui siamo.
Decidiamo di andare a vedere la Casa dei Fantasmi, Rebecca e Ginevra non l’hanno mai vista e giustamente sembra giusto concederglielo anche perché, le altre attrazioni che vorremmo vedere hanno tempi improbi.
Anche qui, avevo visto già la dimora dei fantasmi, ma in questo caso mi ha un po’ deluso, anche se è stata aggiornata con i personaggi di “Nightmare before Christmas” e il personaggio di Jack Skeleton, i disegni di corredo sono bruttini e gli animatronic mi sono apparsi come quelli del carnevale di Viareggio e il ricordo di quelli vintage della prima volta (e alcuni ancora si individuano tra quelli presenti) mi hanno deluso.
Poi è stata la volta dei Pirati dei Caraibi, attrazione presente già da molto prima la venuta di Jack Sparrow, ma anche qui, il successo della serie cinematografica ha fatto inserire una quantità di riferimenti a quella attualizzandola. La ricordavo bella e la ritrovo solo passabile, nonostante gli animatronic fossero datati, la ricchezza dei dettagli e dei particolari me l’hanno fatta apprezzare comunque. Decidiamo di andare a l’attrazione di Guerre Stellari che nessuno ha ancora vista che è Star Wars: Rise of the Resistence. La fila è lunghissima, si snoda all’esterno per la prima parte, e tra cunicoli di roccia (creata ad arte ovviamente) che simulano una base segreta dei ribelli, con casse d’armi lungo il percorso, armadietti con caschi per i piloti, tute ed armi, è tutto questo per ingannare l’ora è un quarto di fila necessaria per arrivare allo start. Poi, entriamo in un base dell’Impero, gestita dall’accoglienza del parco vestita con le uniformi dell’esercito imperiale, ci dividono per colori e ci fanno salire su delle navicelle da sei posti che verranno catapultate in un percorso dove schermi interattivi con gli stessi attori del film ci immergiamo in un’azione all’interno della base, per fuggire da essa. Il percorso è impervio è pieno di agguati, spari, luci e poi veniamo inseriti dentro una navicella che aiuta l’evasione, veniamo lanciati nello spazio e anche qui l’inseguimento è simulato con interazione tra i movimenti della navicella e la parte visiva immergendoti per qualche istante nelle atmosfere del film, quasi ne fossi protagonista, un’esperienza indubbiamente coinvolgente e che giustifica, in parte, la fila.
Andiamo verso Adventureland, spazio che abbiamo lautamente pagato in anticipo sulla prenotazione, ma decidiamo di non andare in un’attrazione con i salti nel vuoto, quelli vietati ai cardiopatici, per intendersi, e ci mettiamo a perlustrare quella zona del parco in cerca di un ristorante che possa tornarci utile, tra le decine di punti ristoro del parco. Optiamo per uno in stile anni ’50 nella parte dedicata al film d’animazione della Pixar Cars, tutto sui toni del verde pallido dell’epoca e decidiamo di orientarci su un classico menù fatto di hamburger e patatine, visto che il giorno eravamo andati su una specie di insalata con pollo.
Prima di chiudere la serata, vista la fila molto ridotta rispetto a un’ora prima, decidiamo di metterci in fila per l’attrazione di Cars, una tra le preferite del web e di conseguenza con un tempo d’attesa tra i più lunghi, un misto di percorso a tema con una corsa finale che assomiglia a delle montagne russe ridotte ma sulle automobili del film.
Con Alberto di fronte alla statua bronzea del grande Walt con Topolino.
Di fronte all’attrazione di Cars.
Giochi di luci e acqua davanti alla ruota di Mickey Mouse.
Oramai sono circa le 9,30 e ci rimane ben poco tempo, la fiumana di persone ancora presente nel parco comincia a dirigersi verso l’uscita, riusciamo a vedere la parte finale dei giochi d’acqua e colori nello specchio di fronte a un rollecostaer dalla velocità impressionante (a quell’ora già chiuso) e la ruota panoramica di Topolino. Poi anche noi, preoccupati dalla possibilità di prendere un taxi tra quelle migliaia di persone, ci dirigiamo all’uscita ma, alla fine, l’operazione è perfino più semplice del previsto, con l’applicazione di Uber, il taxi viene assegnata alla richiesta, ti indica il percorso d’arrivo e in neanche una mezz’ora siamo su un Van da sei posti che ci riporta, stanchissimi, al Marriott. Nell’auto, per tutto il tempo del viaggio di ritorno, non si ode una parola, l’intero team è accasciato, distrutto dalla stanchezza sulle poltrone a schiacciare un ristoratore pisolino prima di andare a letto.
Buonanotte.
Giorno 3
Stamani siamo la invitati a casa da Fabrizio Mancinelli, giovane compositore italiano emigrato in America da anni, un musicista bravissimo che ha conquistato la fiducia degli americani col suo talento. Proprio oggi, se non sbaglio, è stato distribuito in Italia il musical di produzione Italo-americana “The Land of Dreams”, del quale ha scritto parole e musiche dell’intero film. Fabrizio lo conosciamo da anni ed è legato con noi dell’Accademia Nemo da un’amicizia e una stima reciproca che valica gli oceani, ed oggi ci ha invitati a fare colazione a casa sua a Glendale, dove lo abbiamo trovato in compagnia dell’adorabile figlia Nyrie, una bellissima bambina di quattro anni che ci ha tenuto compagnia per tutta la mattina.
Il gruppo con Fabrizio Mancinelli e la splendida Nyrie.
Abbiamo parlato di molte cose, ascoltato alcune sue composizioni e cazzeggiato con tranquillità in quel modo consueto di quando non ci vediamo da molto tempo ed abbiamo bisogno di ricalibrare il tempo perduto, e lo abbiamo fatto ascoltando sue composizioni, parlato dei progetti è tenuto bada Nyrie che, dopo avere rotto il ghiaccio dell’iniziale diffidenza con i presenti, ha richiesto la sua giusta attenzione.
Dopo esserci dati appuntamento nei giorni successivi, ci siamo diretti all’Hollywood Boulevard per passeggiare sulla Walk of Fame, andare al Dolby Theatre è gironzolare intonerò alla strada delle celebrità, in quel modo un po’ assurdo di quei cercatori di personaggi famosi che vogliono calpestare le strade dei propri idoli. Non c’è da dire molto di più che abbiamo trascorso il restante tempo a fare foto a stelle murate sul marciapiede e a scritte e impronte di mani e piedi nel cemento di fronte al Chinese Theatre, insieme ad altre decine di persone.
Il gruppo all’Hard Rock Cafè di Hollywood Boulevard, con un perfetto cibo americano a base di hamburger e patatine.
L’Hollywood Boulevard con tanto di lastroni in cemento con firma e le impressioni delle mani e dei piedi dei divi davanti al Chinese Theatre dove proiettavano il nuovo cinecomic Marvel “Wakanda Forever”, i quali manifesti giganteschi campeggiavano anche in molti altri punti della città, a dimostrazione di una promozione incredibile.
I tre pards davanti al Dolby Theatre, teatro dove ogni hanno vengono consegnati gli Oscar.
Una vista ingrandita della scritta Hollywood, visibile sul retro del centro commerciale accanto al Dolby Theatre.
Le strade di LA sono davvero piene di una moltitudine di personaggi dalle più svariate etnie, ma si può certo azzardare andando vicino al vero, se si afferma che la comunità ispanica è decisamente quella più numerosa. La strada, a parte le serate ufficiale quando si mette il vestito della festa e stende a terra il red carpet per onorare i suoi divi, pare sia male frequentata, sia piena di homeless e di prostitute che la sera ne offuscano la fama.
Pranzo all’Hard Rock Café, dopo una prenotazione e quarantacinque minuti di attesa, spesa ad andare in un centro commerciale vicino, per poi essere serviti da Luigi, un cameriere del locale che ci ha tenuto a rivendicare le proprie origini italiane. Pranzo all’americana a base di rings onions e hamburger, in questo caso della migliore specie, e poi ognuno per sé. I ragazzi verso l’osservatorio astrologico della città, i vecchi verso il negozio di Van Eaton, un collezionista di originali che Luca doveva assolutamente incontrare. Così, se Rebecca, Ginevra ed Alberto andavano verso la collina dell’osservatorio, noi andavamo verso Ventura Avenue, nella San Fernando Valley, sede del negozio.
Un disegno a matita di Walt Peregoy, un autore che non conoscevo e che mi ha incantato con una sola immagine. Gliel’avrei rubato.
Ma appena arrivati abbiamo scoperto che il negozio non aveva più sede all’indirizzo cercato, perché è stato spostato di ben oltre due isolati. Ma tutte queste informazioni ci sono state date da Stephen, un canadese proprietario di un caffè lì vicino, dove eravamo andati per prendere un espresso. Appena ha capito chi eravamo e perché cercavamo Van Eaton gli ha telefonato, ci ha spiegato un po’ di cose sulla zona, sullo sviluppo della città e ci ha dato mille informazioni sul quartiere. Lì vicino infatti, ci abitava James Dean, e poco distante, sulla medesima strada, ebbe il fatale incidente con la sua Porsche che lo uccise precocemente, nello stesso quartiere vissero gli anni della loro unione Clark Gable e Carole Lombard, e mentre ci perdevamo in questi mille aneddoti maledettamente interessanti, è venuto direttamente Van Eaton a prenderci con il suo gigantesco SUV. Con un’incredibile gentilezza ci ha portato al suo nuovo negozio, sempre sulla stessa strada ma in una zona un po’ più moderna e, all’occhio, più a vocazione commerciale. La struttura è nuova, gigantesca e in fase di inaugurazione, che avverrà il 18, venerdì prossimo, speriamo di esserci. Facendoci passare dal retro ci ha fatto vedere in anteprima cosa diventerà lo spazio che si sta creando, una mostra permanente di originali di Comic art, animazione, gadget e merchandising dell’animazione, una vera bengodi di quel genere di attrazione, in uno spazio moderno e bellissimo che sarà un fiore all’occhiello per l’arte dell’entertainment.
Qui abbiamo sfruculiato tra le decine di originali passando da maestri del calibro di Glenn Keane ad Alex Toth, da Matt Davis a Evyn Earle, scambiando opinioni e curiosità col titolare, che ci ha messo a disposizione tutta la sua gentilezza, oltre a farci entrare in anteprima e con grande rispetto nei nostri confronti, in uno spazio non ancora inaugurato. Dopo che Luca ha acquistato gli originali che cercava, siamo tornati all’albergo stranamente stanchissimi ( ma probabilmente si tratta di un accumulo di stanchezza), e ci siamo trovati la hall dell’hotel invasa da appassionati di musica di un “Records Show” una mostra di dischi in vinile che stava per aprire i battenti.
Non ci muoviamo da qui, prenotiamo al Drill & Grill Restaurant dell’albergo, e stasera decido di cenare a base di una calda zuppa di patate e vongole piuttosto piccante e decisamente buona. Nel frattempo nella hall dell’albergo e nei suoi prospicienti spazi, si è aperta la fiera del disco vintage e in vinile e, oltre al fatto di farla cominciare alle 20,00 della sera, ha anche un biglietto d’ingresso di 30 dollari, non proprio uno scherzetto per chi dovrà spendere per altre rarità all’interno di essa. Ci fermiamo pochi minuti nella hall, Luca non sta benissimo, un colpo di freddo lo sta mettendo ko, ma anche gli altri li seguono a ruota, vista la stanchezza che ci accomuna.
Giorno 4
Decisamente non è un buon anno per Luca, il mio socio, dopo le peripezie di Angouleme, dove passò una mezza nottata e una mattinata all’ospedale per una colica renale, anche qui a Los Angeles sta avendo problemi di salute. Un abbassamento di voce, causa un virus o più probabilmente un colpo di fresco o uno sbalzo di temperatura, gli sta impedendo quasi di parlare.
Stamani, mentre si occuperà di altre cose e poi probabilmente si riposerà in camera, dopo una nottata tribolata, io, Fabrizio ed i ragazzi abbiamo come destinazione Santa Monica Pier.
L’idea sarebbe quella di arrivare fino a Venice Beach lungo il litorale, e vedere il famoso borgo sull’acqua famoso per la “somiglianza” con la nostra Venezia e la passeggiata lungo l’Oceano Pacifico.
Arriviamo sotto l’arco che sancisce la fine della Route 66 e l’inizio del pier, un lungo pontile comune a molti altri moli americani che si spinge per diverse centinaia di metri nell’oceano e che dispone sulle sue palafitte di ristoranti, negozi, bazar, giochi e tutto quanto fa spettacolo. Lungo il perlinato di legno che ricopre il molo, si alternano saltimbanchi, cantanti che inneggiano a successi evergreen, giocolieri, acrobati e altri personaggi in cerca di un pubblico. Oggi è sabato, ma sicuramente anche ieri ci sarà stato lo stesso numero di persone, turisti, locali in una fantasmagoria di razze e nazionalità da coprire il mondo intero.
Un’asiatica in costume da bagno, con una pelle raggrinzita e cadente, si muove a ritmo di musica dietro alle note di un cantante che suona Cat Stevens; un ragazzo di colore da sfoggio muscolare ed acrobatico dopo avere imbonito un folto pubblico in attesa di sorprese, un anziano rocker canta random canzoni all’indirizzodi ogni popolo e ogni cultura, passando con disinvoltura da “L’italiano” di Totò Cutugno a le “Feuilles mort” di Edith Piaf.
Il molo di Santa Monica, il punto dove termina la famosa Interstatale 66 che attraversa l’America. In fondo, i più giovani del gruppo: Rebecca, Ginevra e Alberto.
Arriviamo fino alla fine del molo, pieno di curiosi e pescatori con le canne infilate nel legno della balaustra che protegge la camminata, che ha gli appositi fori per contenerle. Poi, dopo avere occhieggiato a Nord Santa Barbara e Malibù e a Sud verso Venice Beach, decidiamo per il Sud.
La giornata è limpida e pulita, spira un venticello freddo che se fosse dalle mie parti non faticherei a definirlo come maestrale, ma qui siamo davanti l’Oceano ed è tutt’altra cosa. Scendiamo sulla spiaggia e prendiamo la pista ciclo-pedonale che costeggia il litorale in direzione di Venice.
Intorno a noi ce di tutto, jogger, ciclisti, camminatori, chi a torso nudo, chi in t-shirt, che col piumotto, giusto per stabilire che anche qui la temperatura è un fatto del tutto soggettivo. Gente abbronzata, homeless sotto una tenda, o che rufola dentro ad un cestino dei rifiuti, giovani abbronzate che corrono con le cuffie, Milf che cercano di mettere in mostra i loro ultimi centimetri di gioventù, palestrati che si gonfiano e corrono in mutande per valorizzare l’effetto degli steroidi che usano.
Orinali, campi da beach volley o da mini american-football con ragazzi che giocano, surfisti in mare con le mute che prendono onde microscopiche con un impegno ammirabile, gente che cammina sulla spiaggia e gente che anche qui sembra debba abbattere record. Una moltitudine di umanità che cerca di impiegare il proprio tempo per migliorare la propria vita, alla ricerca di un benessere difficile da mantenere in una terra che ha eletto la carne in tutte le sue cotture a unico alimento di riferimento.
Camminiamo per circa otto chilometri, costeggiando il mare, qualcuno, come Alberto, anche togliendosi le scarpe e bagnandosi i piedi nel Pacifico, circondato da personaggi buffi, strampalati è fuori dall’ordinario: una goduria.
La lunga passeggiata corre con pista ciclabile è perdonabile in parallelo, poi la pedonale si regolarizza accanto alle abitazioni e abbandona la sua fora un po’ serpeggiante avuta fin lì, permettendo così a negozi: piccoli bazar e shop vari di avere una loro legittimazione e di affacciarsi su essa. Uno tra questi si chiama: Titanic, ed è un negozio curioso ed originale che con pezzi di ricambio costruisce nuovi robot che assomigliano ai personaggi più disparati. Qui ci sono negozi di ogni tipo, da dischi, t-shirt, gadgets ed ogni tipologia merceologica e un po’ fricchettoni, fanno bella mostra sulla camminata, inframezzati da case che danno direttamente sul viale, in un alternanza di architetture tra le più imprevedibili. Quello che manca sono i ristoranti, quelli che sarebbe impossibile immaginare su una passeggiata del genere in Italia, dove tutto diventa gastronomico, commestibile e gustabile, questi li scopriremo più tardi nel punto in cui i canali di Venice terminano, ed avremo già consumato il pranzo.
Verso Venice Beach, sulla pedonabile che costeggia l’enorme arenile di fronte al Pacifico.
Troviamo campi da basket dove nel più classico stile americano si intravedono squadre composte da individui tra i più disparati che si combattono a colpi di canestri, poi arriviamo a Muscle Beach, il punto dove una palestra all’aperto con attrezzi e connessi permettono a muscolari individui di mettere in mostra la loro fatica insieme alla loro prestanza, e dove muscoli con un uomo dentro si sforzano è si gonfiano per far vedere il frutto dei loro sacrifici, ma lo spettacolo sta tutto lì, nel vederli srotolare la loro ruota da pavone. Troviamo anche un bellissimo spazio attrezzato per gli skater, una pista pensata, realizzata è costruita a loro uso e consumo, una zona transennata e dove decine di spettatori decidono di osservare le evoluzioni di quegli atleti (tra cui alcuni molto bravi) con quegli infernali attrezzi.
All’ora di pranzo, non avendo trovato che microscopici negozietti che vendevano gli stessi hamburger mangiati nei giorni prima, ma in condizioni igieniche più precarie, ci siamo decisi di rubare un po’ di wi-fi a qualche struttura vicina, siamo andati a cercare un ristoro. Abbiamo trovato un franchise di Tacos e lì ci siamo fermati.
Appena terminato il luculliano pranzo, abbiamo deciso di andare a visitare il famoso quartiere di Venice, che era proprio un paio di strade sotto.
Venice e Muscle Beach, dove palestrati mettono in mostra i propri muscoli mentre usano attrezzi in una sorta di palestra all’aperto, con tanto di passerella per esibizioni di body-builders.
Il quartiere è stato costruito alla fine dell’800, e intorno alla fine degli anni 90 è stato decretato come “opere di interesse culturale dell’umanità”, ed è stato costruito scimmiottando una città, come la nostra Venezia, scavando canali e costruendoci intorno delle abitazioni. Le case guardano tutte il canale e tra loro e lui sono divise da una passeggiata dove si affacciano i cancelli i di accesso alle abitazioni e, spesso, hanno attraccato di fronte a loro, una barchetta a remi di legno o resina e, qualcuna, anche piccole chiatte a motore che gli permettono di arrivare vicino a dove si vuol arrivare, probabilmente da un vicino con la casa sul canale, con cui fare un piccolo party.
Non è un area grandissima ma le case che si affacciano sui canali sono caratteristiche e realizzate in stili architettonici tra i più disparati, vicinissime tra loro e praticamente è possibile vedere internamente gli arredi e curiosare impunemente attraverso le finestre. Passeggiare lungo i canali è piacevole e rilassante e nel contesto americano è un paesaggio piuttosto unico.
Terminiamo il pomeriggio percorrendo anche il pier di Venice Beach, questo è solo un molo che si tuffa nell’oceano per circa duecento metri, ma non ha attrazioni di nessun genere, ed è al suo inizio che troviamo ristorantini e caffè che non avevamo incontrato prima.
Tra gli incantevoli canali di Venice.
Poi chiamiamo come sempre Uber, che ci raggiunge dopo pochi minuti e rientriamo a Burbank, dopo circa un’ora di viaggio è dopo avere attraversato un bel pezzo della città.
All’albergo prenotiamo i posti per una partita dei Lakers, e incontriamo Luca, poi ci andiamo a riposare un po’ prima della cena. Sul letto, in tutta tranquillità e sfruttando il wi-fi dell’hotel, in tutta tranquillità mi rivedo tutta la partita di volley di mia figlia.
Appena scesi nella hall, incontriamo Florian Satzinger, anche lui al Marriott per il prossimo CTN, e decidiamo di andare con lui a cena.
Florian è un nostro amico di lunga data, è stato uno dei nostri primi invitati di Nemoland, e successivamente lo abbiamo invitato altre volte per vari workshop. È un insegnante austriaco che si è inventato un modo personale per ridisegnare i paperi Disney personalizzandoli con uno stile tutto suo e perciò rinnovandoli, un talento indiscusso e un artista tanto bravo quanto modesto. Di fronte all’hotel c’è uno spazio con diversi franchise di ristoranti McDonald’s, Denni’s, Panda (con cucina cinese), un ristorante greco e Wish-Dish che propone piatti con gamberi, andiamo nell’ultimo perché gli altri vicini stanno già chiudendo, nonostante non siano ancora le 20,30, questo giusto per avere un’idea degli orari americani.
La cena è veloce (il locale stava chiudendo ed è rimasto in stand-by per non perdere gli ultimi clienti), è davvero dimenticabile, gli spiedini su un letto di riso con fetta di pane abbrustolito e cavoletti buttati là, aveva un sapore indefinito. Rientriamo nella hall per pianificare i prossimi giorni e capire come organizzarci, e in quel momento arriva John Pommeroy e famiglia che salutiamo rimandando tutto a incontri più approfonditi nei giorni successivi, essendo anche loro lì per il CTN.
Terminiamo la serata facendo il planning dei giorni successivi e prenotando l’entrata ai Warner Studio’s per il pomeriggio successivo, mentre la mattina andremo a vedere il Getty Museum.
In camera mi metto a scrivere il report quotidiano con molta fatica, il caldo del letto, la morbidezza delle lenzuola e la stanchezza che giorno dopo giorno aumenta per incapacità endemica di recuperare le forze in giornate così intense, mi fa chiudere gli occhi. Accanto a me Alberto sta ronfando tra le spire di un sonno profondo, e anch’io quando rileggo ciò che ho scritto, mi accorgo di leggere cose senza senso, quasi come se fossi stato in trance.
Ed è allora che spengo la luce.