Ero sicuro di saltarla quest’anno Lucca, e oramai mi ero messo anche l’animo in pace poi, come sempre accade, all’ultimo momento è spuntato un appuntamento.
Anzi, nel momento che ho deciso di andare, si è aggregato anche mio figlio che, nonostante il padre lucca-dipendente, non l’aveva mai vista. Non ho cercato di dissuaderlo, e l’ho portato con me, anche soltanto per il gusto di trascorrere una giornata con lui.Ho recuperato dei semplici biglietti di ingresso senza i privilegi dell’autore, e per questo mi sono abituato all’idea di lunghe file al check-in, e prenotato quello che, a naso e tra gli impegni di lavoro, mi sembrava il giorno più tranquillo, quello cioè del giovedì 2 Novembre.
Il distacco dalla manifestazione lucchese oramai si è consumato da tempo, purtroppo la maggior parte delle motivazioni che trasformavano questi primi giorni di novembre in una festa, un’occasione d’incontro tra colleghi e addetti ai lavori, il divertente scouting di nuovi libri da acquistare, sono evaporate, come evaporano le atmosfere quando tutto diventa business e si perde l’aspetto artigianale e anche un po’ raffazzonato delle cose organizzate con un alto tasso di passione, ma che le rende uniche.
Oggi è solo una bolgia di gente, di cosplayers che scambiano i vicoli di Lucca come fosse il lungomare di Viareggio a Febbraio, ragazzotti vestiti di tutto punto da artisti che hanno disegnato tre pagine e già si sentono in odore di santità, un altro mondo insomma, ed io me ne tiro volentieri fuori.
Tra l’altro, quest’anno è cominciato anche malissimo.
La sera del primo Novembre, su Facebook, che oramai è diventata l’agenzia di informazione più veloce dove apprendere le notizie, ho letto, sul primo post visualizzato, quello di Paola Barbato, dell’improvvisa scomparsa di Carlo Ambrosini.
Un tuffo al cuore dal quale non mi sono ancora ripreso
Comunque, siamo partiti giovedì mattina, io, mio figlio Alberto e Marcello Toninelli (compagno di mille avventure) già consapevoli che sarebbe stata una giornata piovosa e uggiosa, ed eravamo anche attrezzati per far fronte a tutto ciò, l’unica cosa era capire quanto brutta sarebbe stata la giornata e quanto fedele alle pessime previsioni.
Le file del giorno prima, dalle quali mi avevano messo in guardia (compresa mia figlia) tutti quelli che erano venuti a sapere degli enormi disguidi avvenuti nel giorno inaugurale, delle lunghe e interminabili code per i check-in, tra l’altro sotto una pioggia battente che aveva messo a dura prova la pazienza degli avventori.
Niente di tutto questo, l’unica fila fatta è stata quella all’ingresso di Porta Sant’Anna per il controllo degli zaini da parte della security, al check-in invece, segnalatomi lo spazio da Riccardo Moni, che gentilmente mi aveva procurato il biglietto, non c’era nessuno e sono stato pronto in un attimo.
Siamo arrivati in piazza Napoleone dove avevo l’editore con il quale avevo un appuntamento, con l’intento di togliermi subito l’incombenza per la quale ero venuto, e così è stato.
Complice un pubblico contenuto, vuoi per il giorno feriale vuoi probabilmente per le previsioni meteorologiche, con l’editore ci siamo comodamente presi il tempo per andare a bere un caffè e a disquisire sul nostro futuro rapporto.
E l’accordo è stato trovato.
Sono contento, che dopo quasi due anni dalla sua realizzazione, il mio ultimo graphic-novel abbia trovato una sponda italiana (dopo avere già trovato quella francese e spagnola, come si evince, nemo propheta in patria), lo sono anche di più perché la durezza e l’ambientazione della storia credo abbia una sua attualità in questi tempi e mi piaceva poterla offrire al pubblico italiano.
Poi è cominciato il carosello degli incontri: il duo Davide Barzi e Andrea Rivi, un veloce incontro con Pierluigi Gaspa, un saluto a Francesco Barbieri e Marco Bianchini nello spazio di fronte al teatro del Giglio, dove era al lavoro come sempre, Simone Bianchi, che oramai ha cooptato tutta la famiglia nel suo stand dove vende illustrazioni e realizza commissions nella migliore tradizione americana.
Giusto a dimostrare che Alberto ed io c’eravamo.
Simone è un autore italiano che è riuscito a coronare il suo sogno che inseguiva da quando è uscito dall’Accademia e veniva a chiedere consigli a noi autori nelle lontane Lucca di quegli anni. Poi si è cimentato negli anni successivi in molti lavori come Rivan Ryan ed Ego Sum ma, alla fine è riuscito finalmente a sbarcare nel mercato a lui più congeniale che lo ha finalmente valorizzato: quello americano. E qui ha potuto dimostrare tutto il suo valore, perché con le sue ipertrofiche anatomie e le sue capacità pittoriche è riuscito come pochi ha esaltare i corpi e la fisicità dei supereroi del fandom americano diventandone uno dei beniamini, con un successo più che meritato.
Poi, sotto un’acqua che nel frattempo ha cominciato a martellare la manifestazione, una sosta allo stand Bonelli per la firma su alcune copie di illustrazioni che Riccardo De Marino (lo steward decennale della Bonelli) mi aveva chiesto di realizzare, e che ho fatto sul tavolo del ristorante di Mimmo e Sergio Giardo, poco prima che gli servissero il pranzo.
Infine un saluto a Enoch e Vietti alle firme dei loro lavori, in uno stand Bonelli che negli anni sento sempre più distante e lontano, quasi fosse una sorta di visione che si allontana sempre di più, diventando nebulosa e sfocata.
Poi decidiamo di andare a pranzo, e andiamo nel ristorante di via Garibaldi dove gli ultimi anni abbiamo consumato le nostre libagioni.
Ma quest’anno, ci siamo invece imbattuti nel cattivo costume che oramai negli anni sta pervadendo usi e costumi della città che, nella più classica usanza di certe occasioni, mettono menù turistici al limite dell’offesa alla pubblica intelligenza, con piatti banali e, in certi casi mal fatti e costosi. Abbiamo bevuto una birra alla spina (ridicola nel formato, poco più di un bicchiere) e mangiato due hamburger insapori (scelte obbligate visto l’aspetto di quello che veniva servito ai tavoli vicini) e pagato una cifra al di sopra del buon gusto. Nonostante il maltempo, abbiamo deciso di vedere le mostre che l’organizzazione aveva disseminato un po’ ovunque nei mille angoli della città, per cui nella chiese sconsacrata dove convivono sia l’artist alley che i venditori di originali, e precisamente nell’abside, erano esposte le tavole di Dino Battaglia, uno degli esempi più fulgidi del nostro Fumetto, e autore di assoluto riferimento per la mia generazione, nonché una novità per me, che non avevo mai visto un suo originale. Il segno pulito e segmentato di Battaglia, e il suoi mezzi toni realizzati col pennello spuntato, non mi sarei mai immaginato fossero su tavole di dimensioni così ridotte, mi sarei aspettato ampi fogli e mi sono ritrovato invece disegni quasi in scala 1:1, davvero splendide.
Un’emblematica immagine del diluvio del primo pomeriggio, che ci ha obbligati alla sosta forzata sotto le arcate della Cattedrale di San Martino.
Poi, insieme ad Alberto, Marcello Toninelli e Sudario Brando Siena (incontrato all’artist alley) dopo avere atteso almeno venti minuti sotto il portico della Cattedrale di San Martino, in attesa che diminuisse la bufera d’acqua scatenatasi nel primo pomeriggio, siamo andati a vedere Howard Chaykin nel palazzo delle esposizioni.
Chaykin è un autore che ho apprezzato molto alla fine degli anni ’70, quando con il montaggio a pagina esplosa delle sue storie (realizzate in stile pittorico, che per l’epoca risultavano assolutamente innovative ai miei occhi), mi affascinarono e mi fecero avvicinare a quello che successivamente venne ribattezzato “rinascimento americano” che includeva autori come: Bill Sienkiewicz, Kent Williams, John J. Muth, Dave McKean, George Pratt, Frank Miller alle matite, e Morrison e Moore ai testi. Il suo stile in B&N mi ricorda Horak uno dei primi disegnatori del James Bond a fumetti degli anni ‘ 60, spigoloso e dalla pennellata frenetica, ma a suo modo affascinante.
Infine, dopo che Marcello è ritornato in postazione per la programmata sessione di dediche, solo con Alberto mi sono andato a vedere le mostre allestite al Palazzo Ducale.
Bella la mostra di Tomer e Asaf Hanuka, i due artisti israeliani che hanno deciso di non partecipare alla manifestazione dopo il rifiuto di Zerocalcare e il focus subentrato successivamente sulle vicende mediorientali. Mostra bella e inutile perché ahimè, le esposizioni fatte soltanto in stampe (visto che i due artisti israeliani lavorano solo in digitale), sono, dal punto di vista artistico in sé sterili, anzi, almeno le opere andrebbero retroilluminate quanto meno per meglio simulare la loro aderenza al reale. Luis e Romulo Royo (padre e figlio) mi hanno lasciato abbastanza indifferente, bravi nell’esecuzione tecnica ma privi di interesse, almeno per me.
Akab e Furuya non rientrano nel range delle cose che sono di mio gradimento, mentre molto belle le opere dell’illustratrice francese Amelié Fléchais, delicate e leggere. Interessante quella di Garth Ennis, ma che trattandosi di uno sceneggiatore, è fatta però con illustrazioni e disegni degli artisti (appena visibili nelle etichette) che, appunto, hanno disegnato le sue storie.
Le mostre del Palazzo Ducale però, hanno da sempre la qualità di abbracciare stili e universi diversi e multiformi, in modo che chiunque abbia la possibilità di visitarla, può trovare artisti ed opere in cui riconoscersi e l’allestimento e la bellezza della location hanno sempre un motivo in più per non disertare la visita.
Il padiglione di Amazon Prime Video.
Poi un ultimo giro al padiglione Napoleone, per vedere di riuscire ad acquistare qualcosa da leggere. Qui ho avuto modo di fare quattro chiacchiere con Daniele Caluri e Gipi, Caputo ed Emiliano Pagani, poi, con un cappello da vecchio baleniere di stanza sul Pequod, vedo Lele Vianello, che saluto fraternamente, rimandando i nostri incontri a future occasioni francesi, se mai ci saranno.
Sono circa le 16,30 ed è il momento di rientrare, l’auto parcheggiata in piena periferia anzi, tra gli incipienti campi a ridosso della città, è ancora lì nel punto critico nel quale avevamo trovato uno spazio occupabile, la pioggia non ci ha reso più impervio del previsto il cammino fino a quel punto e, finalmente, ce ne rientriamo a casa.
Lucca anomala, piovosa e indolente, almeno per me. Forse perché accettata in extremis, forse perché non avevo l’animo giusto per viverla, sicuramente il tempo, la pioggia e le complicazioni del tutto non l’hanno resa memorabile. Unico punto a favore è che finalmente ho trovato l’editore per il mio graphic-novel, piazzato, mai come questa volta (almeno in Italia), con tanta difficoltà. Il piacere, quello sì, di rivedere alcuni colleghi, percepire che fai parte nel bene o nel male di una comunità che sa riconoscersi e con la quale hai condiviso gran parte delle tua vita.
Per Alberto non è stata una bella esperienza ed io, conoscendolo, non ho voluto dissuadere il desiderio (comprensibile) di volerla vedere, almeno una volta, nonostante ne immaginassi l’esito. La sua sfortuna è stata quella di viverla sotto una pioggia che l’ha resa inospitale, con l’impossibilità di vedere (per uno come lui che non legge fumetti, con buona pace di suo padre), almeno la parte più colorata e folkloristica della manifestazione che, anche se caciarona e invadente, la colora e la rende una sorta di Carnevale fuori stagione: i cosplayer. Questi, coperti dagli impermeabili e sotto gli ombrelli erano per lo più invisibili e anonimi e, almeno in quel giorno, per chi voleva “respirare” il profumo di quelli che oramai è diventata Lucca Comics&Games, e cioè un’enorme festa colorata: non c’è stata.
Il loggiato che ospitava stand promozionali di film di prossima uscita.
Per ciò che riguarda la manifestazione, almeno per me, ho avuto la percezione che il padiglione Napoleone, una volta il cuore del fumetto che mi interessava e di cui mi sentivo parte, si stia trasformando in qualcosa di diverso. La maggior parte degli stand sono di editori che non conosco e di cui conosco poco la produzione (colpa mia, per carità, che non riesco più ad appassionarmi a cose di quel tipo), autori sconosciuti, giovanotti barbuti, magari col cappello e con la pipa (come mi è capitato di vedere, ma solo uno, intendiamoci), che si atteggiano ad artisti consumati, insomma, a parte poche eccezioni (che temo spariranno tra qualche anno), un mondo in cui è difficile, almeno per me, riconoscermi. Tuttavia, questa evoluzione l’ho messa in conto da tempo e, se da parte le novità e i cambiamenti sono auspicabili, dall’altro mi spaventa questa mia riluttanza ad apprezzarne i risultati. Riconosco però che la difficoltà, almeno per la mia generazione, sono i punti di partenza, quelle che una volta si definivano: le basi. Noi siamo partiti da autori come Toppi, Battaglia, Micheluzzi, Pazienza, Pratt, Breccia e compagnia cantando, questo giovani autori, i sopracitati, neanche li conoscono, o quasi.
Vabbè, ogni anno mi pare di riscrivere le solite cose, per cui mi fermo qui, alla fine, per esserci stato un solo giorno, ho scritto perfino troppo.
Ah sì, un’ultima cosa.
Il rifiuto di Zerocalcare di non partecipare alla manifestazione, che rispetto e che da un lato posso anche condividere, ha prodotto anche la defezione dei due autori israeliani Tomer e Asaf Hanuka, esposti al Palazzo Ducale e realizzatori del poster della manifestazione perché, a detta loro, il clima si era fatto un po’ critico. La cosa, senza voler sminuire il gesto politico del primo, ripeto, anche condivisibile, mi ha ricordato però quelle ridicole affermazioni subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina, quando si volevano mettere al bando rappresentazioni o marginalizzare artisti e autori russi, contribuendo a dividere tra buoni e cattivi, bianchi o neri, due parti senza distinzione di ruolo, semplificando e mortificando in modo manicheo e poco comprensibile, una realtà complessa e articolata.
E non so, in tutta sincerità, se tutta questa schematizzazione sia utile.