Eccoci qua, dopo due anni di statica immobilità, siamo nuovamente con la valigia in mano.
Mi mancava? Sì, in realtà una grande astinenza per cause così gravi e che ha coinvolto il mondo, era dura da immaginare e ancora facciamo fatica a metabolizzarla. Ma nei continui cambiamenti che il mondo ci sta offrendo pro e contro voglia in questo breve scorcio di inizio secolo, quella del “mascheramento” a scopi sanitari non l’avremmo mai preventivata, situazioni del genere sembravano relegate solo all’interno di trame di film americani catastrofisti e che sembravano poco probabili. E invece l’abbiamo vissuta, subita e a certi condizionamenti dovremmo farci pure l’abitudine.
Non vorrei commentare altro, sugli ultimi due anni abbiamo visto e letto fiumi di parole, statistiche, congetture e prese di posizione, io me ne asterrò.
Sto scrivendo a bordo di un A-321 della compagnia WIZZ, una compagnia già vista nei vari aeroporti ma con la quale non ho mai volato, la mia destinazione è Tirana, quella finale Pristina in Kosovo.
Che vado a farci? Sono stato invitato al GranFest, una manifestazione di fumetti che si tiene in questa città e dove ero stato invitato per l’edizione del 2020, ovviamente saltata causa Covid. Sull’invito dell’organizzatore Gani Jakupi, uno sceneggiatore che ho conosciuto tempo fa al Festival di Blois e con il quale abbiamo allacciato un rapporto immediato e complice.
A dire il vero non conosco né il programma né su cosa sarò coinvolto, il mercato del fumetto è piuttosto esiguo in questo territorio, non fosse altro perché anche il numero della popolazione credo ruoti intorno a pochi milioni di abitanti, tuttavia mi sono portato l’astuccio professionale che porto sempre con me ai vari festival, nella certezza che in questi tre giorni almeno un disegno dovrò sicuramente farlo.
L’anno scorso ero stato contattato anche da Matteo Corradini, l’addetto all’ambasciata italiana a Pristina che durante questo anno di immobilità mi aveva coinvolto anche ad una conferenza on-line, ma purtroppo non avrò il piacere di conoscerlo visto che è stato trasferito al consolato italiano a Birmingham. Così sono stato preso in consegna dall’Istituto Italiano di Cultura di Tirana che mi ha organizzato viaggio e permanenza, e che invierà al mio arrivo un autista che mi porterà dopo tre ore di viaggio a Pristina.
La mia curiosità, al momento, va a un territorio che non conosco e che difficilmente avrei conosciuto non essendo propriamente mete turistiche, ma come molto spesso è accaduto, attraverso la mia professione sono riuscito a vedere.
A Pisa, al gate 21 dove partiremo, la comunità di passeggeri è già in attesa dell’imbarco e, come sempre, il mio sguardo ruota intorno a me per scannerizzare i miei compagni di viaggio. Io sono un po’ lombrosiano in certi casi, e questo potrebbe anche non deporre a mio favore, ma spesso nei volti intravedo non soli tratti genetici o tribali, ma talvolta mi pare di scorgere anche segnali precisi del carattere. Detto questo, è senza voler offendere nessuno, i volti dei viaggiatori del volo W6 3854 ricordano un po’ le facce spaurite di quella massa di persone che sbarcarono da noi circa venticinque anni fa. Volti scuri, di gente abituata a lavorare al sole, e con gli occhi alla ricerca di nuove opportunità e che mi hanno sempre ricordato le foto dei miei nonni negli anni ’30, quando i volti erano quelli dei contadini che lavoravano nei campi e le donne non facevano né manicure e tanto meno messa in piega e taglio ogni settimana.
Solo i più giovani, cresciuti nell’opulenza di cui le giovani generazioni hanno beneficiato, hanno un aspetto identico ai nostri, stesso taglio di capelli, abbigliamento alla moda, scarpe sportive firmate, in quella omologazione forzata a cui siamo tutti sottoposti.
Ma al momento stiamo già sopra le nuvole, Pisa è alle nostre spalle e la velatura del sole di questa bruna mattinata dell’8 Ottobre illumina quella pianura Toscana che tra un cumulo e un nembo riusciamo a vedere.
Arrivo a Tirana intorno alle 10,00, l’aeroporto è piccolo ma piuttosto moderno, ho il bagaglio a mano e faccio presto a sbrigare le pratiche doganali, all’uscita c’è l’autista che mi aspetta con il mio nome scritto sul foglio: un classico.
Saliamo sulla sua Audi ultimo modello e partiamo in direzioni onde di Pristina. Mi avvisa subito che c’è da fare qualche decina di chilometri prima di entrare ne l’autostrada che ci permetterà di avere una velocità di crociera migliore. Lui é un kosovaro, e ci tiene subito a mettere i puntini sulle “i”, l’Albania è tutt’altra cosa dal Kosovo, quest’ultimo è più moderno, pulito ed efficiente mentre si capisce che oltre la rivalità tra i due paesi confinanti diversi per cultura e popolazione, lui a queste cose ci crede, e perora la causa fino all’arrivo.
É vero, il panorama albanese è migliore di quanto me l’aspettassi, un po’ trascurato e spoglio, con quel disordine percepito anche facendo una statale tipico dei paesi che ancora non hanno trovato una loro collocazione allineata a quelli di riferimento, ma che sono sulla buona strada per farlo. Poi purtroppo noi italiani abbiamo riferimenti incomparabili, e noi toscani in particolare con le nostre colline, le nostre campagne fatte di dolcezze topografiche e armonia di forme, siamo abituati talmente male che al confronto quasi nessun paesaggio regge il paragone. Le campagne albanesi appaiono brulle e le alture che incontriamo hanno vegetazioni basse e sicuramente meno suggestive, non c’è niente degno di nota, nessun particolare da rammentare né paesaggio da ricordare.
L’arrivo all’hotel Sirius è esattamente dopo tre ore e mezzo di viaggio, quelle preventivate. Saluto lo chauffeur e vado in camera. Qui non siamo in Europa e quindi le tariffe telefoniche sono maggiorate, inserisco il Wi-Fi e a qui comunico con Watsup col mondo. Gani Jakupi, l’organizzatore della mostra passerà più tardi, mi comunica che io ad altri tre autori siamo ospiti dell’albergo.
La via centrale della città, e in alto la Biblioteca Nazionale
Faccio in giro nelle vicinanze dell’albergo. Sono a ridosso dell’arteria principale della città che rappresenta con la sua vasta area pedonale il suo centro commerciale e di maggiore attrazione, qui si allarga in un punto dove una fontana a zampilli sincronizzati intona il suo balletto nonostante la pioggia insistente che non ci abbandona mai, tra palazzi nuovi, il teatro e qualche monumento equestre di eroi con cimiero e spada. Certo, con il sole l’aspetto sarebbe stato sicuramente diverso, ma dobbiamo accontentarci di questa vista sotto un manto di nubi grigie e anonime che ne uccidono i colori. Sono a digiuno dalla prima mattina, ma al contempo non voglio impegnarmi in niente di particolare, tanto meno misurarmi su menù sconosciuti e dei quali non conosco ingredienti e sapori, mi imbatto in un Burger King e, per non rischiare, mi fermo su un classico cheeseburger, optando per il sapore omologato di un qualsiasi cibo spazzatura. Una volta tanto si può anche fare.
L”organizzazione è un po’ latitante, Gani è rimasto da solo nella gestione di ogni cosa è il planning della manifestazione e nessuno lo conosce, ma abbiamo capito che stasera abbiamo un evento alla Biblioteca Nazionale e l’inaugurazione dell’esposizione.
Il Kosovo è un paese piccolo, conta circa due milioni di abitanti e tutto questo si riflette sul coinvolgimento diretto delle autorità anche in manifestazioni piccole come questa, all’inaugurazione infatti c’è il primo ministro Albin Kurti (un po’ come se Draghi venisse ad inaugurare una mostra di fumetti… ci voglio credere) oltre che a una delegazione di ben tre ambasciatori, quello francese, svizzero ed italiano, praticamente tutte le persone che contano in questo paese sono all’inaugurazione della manifestazione. Miracoli del piccolo ma molto importante è l’amicizia precedente la carica politica che esiste tra Gani (l’organizzatore) e il premier.
Alcuni momenti dell’inaugurazione dell’esposizione.
Qui conosco l’ambasciatore italiano (che è in carica da solo otto giorni, e quindi non conosce ancora bene le dinamiche locali) e il suo addetto Ugo Ferrante (che mi fa firmare una copia del catalogo della mostra per Matteo Corradini, il suo predecessore e appassionato di fumetti e di Nathan Never in particolare), persone molto simpatiche che mi fanno sentire a mio agio in una manifestazione, dove, come al solito, sono l’unico rappresentante della mia nazione. Pochi brevi discorsi alla Biblioteca e poi subito all’inaugurazione dove ci attende anche un piccolo rinfresco a base di vino, dolci e stuzzichini. L’esposizione è in una galleria messa a disposizione della facoltà delle Arti, direi che è piuttosto minimal, otto stampe digitali prese dagli albi degli autori distribuite in due stanze completamente bianche, con un effetto piuttosto asciutto da punto di vista estetico ma non privo di un certo fascino che tende ad esaltare più il contenuto che la forma, essenziale in una repubblica giovane di dieci anni che cerca di darsi una personalità e crescere a livello culturale e internazionale. In questo contesto, attorniato da televisioni e guardie del corpo il primo ministro si sofferma a chiedere informazioni sugli autori, e aiutato da una collaboratrice dell’ambasciatore cerco di descrivere il mio percorso professionale attraverso le immagini esposte. Poi il buffet ci accoglie con i suoi vini locali e qualche appetizer, e qui conosco Donato Giuliani, un addetto all’ambasciata francese di origini italiane molto simpatico con cui ci mettiamo a parlare, è sempre incredibile quanto italiani emigrati in Francia si trovano e quanto della nostra cultura permea la loro, e c’è da dire che l’amore verso il nostro paese nonostante l’abbandono per fini lavorativi dei genitori, rimane indissolubile. Donato spiega come il compito di alcune ambasciate e la sua in particolare, verta sul tentativo di cambiare la percezione culturale del paese rappresentato, nei confronti di un paese come il Kosovo che è in crescita, ma dove la popolazione si parla oltre all’idioma locale, tendenzialmente inglese e tedesco, e come l’attenzione dell’intero popolo del Kosovo sia rivolto soprattutto alla Germania e certamente non per l’aspetto culturale ma per ciò riguarda la possibilità di trovare lavoro e possibili opportunità di crescita.
Alla fine, la comitiva degli artisti capitanati da Gani, si dirige verso il centro poco distante, a dire il vero pur essendo intorno alle 20,00 non è che intorno a noi ci sia tutta ‘sta vita notturna. Entriamo in un ristorante dai toni piuttosto scuri e dall’arredamento moderno a massiccio, il classico locale che oscilla tra il pratico e il desiderio di essere sofisticato, nonostante l’ora è praticamente deserto, solo un tavolo è occupato da quattro persone. Non so cosa pensare. Il menù è difficilmente comprensibile e mi lascio guidare dalle scelte di Gani, anche se l’uso di termini gourmant lascia perplesso pure lui, ma alla fine decidiamo un po’ tutti su piatti di carne (la pietanza più utilizzata da queste parti), e devo dire che la scelta si dimostra veramente riuscita, al di là della velocità con cui vengono serviti i piatti, la carne è davvero morbida, delicata e saporita. Siamo vicini alle 22,00 l’ora del coprifuoco, qui per quanto la curva pandemica sia sotto controllo a quest’ora le attività notturne chiudono causa Covid, ed è l’ora di rientrare all’albergo.
Non vedo l’ora, sono stanco e ho bisogno di una doccia calda.
Il sabato mattina mi sveglio ad un orario umano, all’apertura delle tende oscuranti però lo spettacolo non varia dal giorno precedente, il cielo è plumbeo e cade quella pioggerella fastidiosa e costante che sempre concepita semplicemente per disturbare le attività umane. La colazione è fatta all’ottavo piano dell’albergo dove si gode di una splendida vista della città seppur ammantata di grigio.
Dopo la classica colazione internazionale, scendo in strada giusto per dare il tempo di rifare la camera, perché la pioggia effettivamente impedisce qualsiasi tipo di passeggiata, non ho l’ombrello e per colmo mi sono dimenticato il cappellino impermeabile che sarebbe stato provvidenziale in questa occasione.
Il programma indica un incontro col pubblico alla Biblioteca Nazionale, la stessa dell’inaugurazione, mi faccio trovare in camera e Gani è costretto a chiamarmi, ero qui che scrivevo il mio report, neanche fossi un corrispondente di guerra.
Non è neanche sicuro che ci siano molte persone, l’aspetto della comunicazione è stato un po’ latitante e si rischia la sala vuota. Non è così, per fortuna.
All’ingresso trovo Dardan Luta, un autore locale (anch’esso presente all’esposizione) che si unisce a noi per l’incontro con il quale facciamo quattro chiacchiere, apprezza il fumetto italiano ed anche lui ama il bianco e nero come forma espressiva.
Poi comincia la conferenza, come al solito c’è una traduttrice in francese ma per me, l’unico italiano del gruppo, come spesso mi accade, tocca parlare in una lingua non mia e spiegare le mie origini, il mio lavoro e alcune relative conseguenze.
Ce la facciamo senza neanche troppi patemi, e c’è perfino il tempo di una replica.
È tempo per un piccolo aperitivo, e Gani decide di portarci a mangiare in un localino di non più di una quindicina di metri quadrati, qui ci viene servito un burak, una specialità della gastronomia locale che consiste in una specie di cannellone fatto di pastella cotto nel forno elettrico e farcito o di formaggio o di carne. Buono è felice di averlo assaggiato, adoro quando riesco a consumare specialità locali dove si intuisce le influenze culturali di altri paesi, questo ad esempio per forma e realizzazione ricorda un incrocio tra un involtino primavera e il kebab turco.
Siamo così tutti liberi di andare al Pichat (lo ricordo per la ricerca del Wi-Fi) un locale vicino all’albergo dove pranziamo. Anche qui mi faccio indicare da Gani la specialità locale e ci accordiamo sul Grand Circle, un piatto dal nome un po’pomposo e per quattro persone che ci dividiamo io, Gani e David, ma che si rivela essere una serie di schiacciate farcite, buone, ma meno originali del burak. Il pranzo scorre veloce con le chiacchiere tra noi e la verve instancabile e comunicativa di Gani che è davvero una fonte inesauribile di argomenti e spunti.
Praticamente ci alziamo da tavola che sono quasi le 17,00 l’ora esatta per andare al cinema Armada, dove verrà proiettato in anteprima mondiale il documentario realizzato da una nostra collega presente: Lilie Sohn. Un’ora di proiezione sulla sua personale esperienza del Sentiero di Santiago, l’esperienza che negli ultimi anni viene affrontata da molte persone come viaggio catartico alla ricerca delle proprie essenze perdute, un modo per allontanarsi dagli stress e dai condizionamenti quotidiani, dalla schiavitù di internet e dai social network e riscoprire attraverso la marcia il proprio equilibrio. Non a caso il film di intitola Digital Detox.
La proiezione scorre in maniera molto piacevole, tra riflessioni, paesaggi suggestivi e linee grafiche che si rincorrono sullo schermo a ricordare il filo conduttore della storia e che la protagonista è, alla fine di tutto, una disegnatrice: davvero molto carino.
Sul finale a vengono fatte delle domande sull’iter della realizzazione che si rivelano molto interessanti, anch’io ho dei dubbi che voglio risolvere e Lili con la sua aria davvero simpatica risponde a tutti i nostri quesiti. Ricordo che tra i produttori c’è anche Casterman, la casa editrice per la quale lavora, segno evidente che l’autore a quelle latitudini viene seguito anche di fronte a proposte diverse dal suo percorso abituale, con un attenzione all’aspetto culturale ed espressivo dell’autore stesso.
Usciti dal cinema, via tutti a un bar a bersi una birra, tutti insieme e qui approfondisco la conoscenza di Edith e Judith Vanistendael, altre due tra le colleghe francofone presenti.
Ci alziamo a bar per andare al ristorante dove ceneremo, questo sabato mi sembra che abbia la caratteristica di vederci tutti di fronte a un tavolo con dei bicchieri, mi sembra soltanto di avere mangiato e bevuto per tutto il giorno.
Il ristorante è dietro ad un cancello in legno quasi invisibile alla strada, ma alla sua apertura si rivela una costruzione molto caratteristica, fatto in mattoni con delle parti in vetro, e sembra rivestito di porfido come il pavè. Qui ci aspettano Donato è un suo amico, che credo sia anch’esso un dipendente dell’ambasciata, tanto parla bene il francese, mentre scopro alla fine della cena che è un kosovaro e non parla male neanche l’italiano: -E’ il vantaggio di vivere in paesi poveri- mi dice più tardi Gani – Siamo costretti ad imparare altre lingue per trovare lavoro.- . La cena è offerta dell’ambasciata francese e noi siamo tutti ospiti.
La cena offerta dall’ambasciata francese.
Inutile dire che la serata scorre piacevole, accanto a me ho Donato, di fronte l’amico (di cui purtroppo mi sfugge il nome) e Gani, e accanto a me la simpaticissima collega Judith che, in quanto belga, ci spiega le complicazioni culturali, linguistiche e di convivenza tra fiamminghi e valloni, e qui scopro, come se c’è ne fosse bisogno, ma alle volte anche sì, che in ogni comunità e in ogni paese ci sono dei problemi da risolvere e che in certi casi sono talmente radicati che sembrano di natura insormontabile. Gani è ancora straripante, un vero maestro di cerimonie, tutto ruota intorno ai suoi aneddoti e alle sue esperienze ed è divertente e altrettanto stancante, almeno per me stargli vicino, almeno fino a quell’ora. Lui parla tranquillamente il francese, inglese, spagnolo (credo anche il portoghese), italiano e ovviamente il kosovaro, mentre io è tutto il giorno che sembro un citoyen del 13imo arrondissement, tanto ho dovuto parlare e ascoltare in francese.
Ma se Dio vuole la cena è finita e la giornata è andata molto meglio del previsto, ho approfondito la conoscenza di colleghi simpatici e siamo stati impegnati tutto il giorno in un’esperienza totalmente diversa da altri festival ma altrettanto viva ed interessante.
Una doccia calda mi aspetta e la stesura del mio consueto report che, assente da un paio d’anni, mi appare come un piacevole passatempo che mi era dispiaciuto abbandonare.
Il Grand Hotel di pristina e sopra uno scorcio della città visto dal terrazzo dell’Hotel Sirius.
È l’ultima mattina, aspettiamo Gani nella hall per andare in un complesso culturale dove c’è anche un teatro nel quale nel suo ridotto due delle nostre colleghe devono promuovere due album che gli sono stati tradotti in albanese (Kosovo e Albania hanno pressoché la stessa lingua). Come negli ultimi tre giorni, la carovana di autori si dirige sotto la pioggia verso la loro destinazione, all’interno di questo enorme complesso situato di fronte allo stadio di calcio, e dall’architettura che ricorda le astronavi degli Harkonnen (chi ha visto Dune, primo o secondo fa poca differenza, capisce cosa intendo), all’interno del quale ci ritroviamo in un caldo ambiente che ricorda le cantine degli esistenzialisti, qui un bar offre bevute e caffè e stanno arrivando qualche persona per assistere all’evento.
Il ridotto del teatro e sopra “l’astronave degli Harkonnen”, l’imperioso palazzo del centro direzionale.
Non c’è presentazione o introduzione che sia, le due autrici si mettono al tavolo di fronte ai loro libri e le persone intorno ai tavolini antistanti, parlottano tra loro e poi senza fretta e prendendosi il tempo necessario si avvicinano e, chi vuole, si fa fare disegno e dedica. La cosa che più mi ha colpito in questo giovane paese è la capacità di fare le cose con quella lentezza che da noi si è un po’ perduta, un modo di affrontare le cose con calma e tranquillità, senza patemi e con quel mix di semplicità e improvvisazione tipica dei paesi balcanici, con una filosofia di vita a differente velocità per noi poco consueta ma molto affascinante.
Ma è l’ora in cui alcuni di noi ha il taxi per l’aeroporto o come me quello dell’autista che deve riportarmi a Tirana, saluto Sophie, Edith e David Proudhomme, una bravissimo autore francese che apprezzavo da sempre e con il quale abbiamo stretto una simpatica conoscenza.
Poco dopo arriva Mosa, è puntuale e con la sua Audi mi è venuto a prendere di fronte al Sirius, sempre sotto l’incessante pioggia che ci ha accompagnato. Telefono a Gani che è rimasto con l’altro gruppo a teatro, volevo salutarlo per ringraziarlo dei suoi sforzi, della sua compagnia, e per avermi dato l’occasione di interrompere questo digiuno da Festival durato oramai due anni e che mi mancava un po’. Tuttavia sento che sta cambiando qualcosa, e non so quanto tutto questo possa ancora durare, almeno per come l’ho conosciuto, ho l’impressione che si presenti un periodo dove devo necessariamente rivedere qualcosa, qualche priorità, fare dei cambiamenti, nuovi obbiettivi per regalarmi di nuovo quell’entusiasmo un po’ perduto, pur non avendo le idee molto chiare.
Ma mi resterà un caro ricordo di questa sortita balcanica, quella di un un festival vissuto tutto sotto la pioggia, con un’accoglienza diplomatica e politica come pochi e che a modo suo è stato un punto di rottura e di ripartenza dopo un periodo buio, isolato e misogino, e mi ha dato nuovamente la possibilità di riprendere i miei amati report interrotti per così tanto tempo.
Grazie Gran Fest di Pristina.