C’è stato un tempo, e sembra di raccontare una favola, in cui a Rosignano Solvay, un paese sotto l’egida della fabbrica che praticamente l’ha fondato, quest’ultima si premuniva di educare i figli dei suoi dipendenti (ma anche quelli dell’intera comunità) all’interno dell’Università Popolare, una organizzazione gestita (extra lavoro) dai dipendenti che forniva attraverso varie iniziative, corsi, lezioni in quelle che praticamente potremmo definire in modo un po’ desueto le “arti applicate”.
Tutto questo all’interno di un senso di comunità che, almeno in quei valori e in quei modi, oggi sembra scomparsa.
Io, sotto l’insistenza dei più, viste la mia riconosciuta attitudine nel disegno, ma non con qualche riluttanza, alla fine mi iscrissi al corso di pittura. La riluttanza era dovuta a quella presunzione tutta infantile di quando eccelli in qualcosa e non capisci (perché effettivamente non sai) che altro ti avrebbero dovuto insegnare in una cosa che a te veniva così naturale e senza fatica.
Il corso era gestito da un pittore di origine ebraica, nato ad Alessandria d’Egitto ma livornese d’adozione: Daniel Schinasi.
Schinasi era stato, tra le altre cose, in fondatore de “la renaissence du cubo-futurisme” una corrente artistica fondata da lui medesimo e non so da quanti altri pittori fosse seguita, di sicuro da tutti i suoi allievi dei quali, poco dopo, feci parte anch’io, una corrente in cui si rivalutava l’esperienza dei due movimenti storici fondendoli insieme e rivisitandoli con spirito nuovo.
Il primo giorno del corso mi sedetti tra i tanti ragazzi e cominciai con un ritratto del “Franchi”, un pescatore di Castiglioncello che si prestava come modello e che aveva un volto rinsecchito e pieno di rughe formate dai mille maestrali che lo avevano scolpito.
E ne avevo di cose da imparare, come in ogni nuova avventura (avrei capito dopo), perché in quegli anni il corso mi aiutò a osservare le cose e il mondo in modo diverso, con occhi nuovi e non convenzionali, conobbi tempera e oli, ma sopratTutto riuscii a trovare dentro di me l’energia di trasfigurarlo, di dare un senso ai colori e alle linee che non fossero quelle consuete del realismo e cercando forme e suggestioni che andassero oltre allo stretto figurativo.
After Cezanne, opera mia a 17 anni.
Tra noi allievi Schinasi a volte era un po’ contestato perché -non dimentichiamoci il momento storico- aveva un senso molto pratico e pragmatico del suo lavoro e noi, tutti nipotini di un non lontano ’68, avevamo ideali un po’ diversi, meno pratici e tutti votati ad un idealismo tanto lirico quanto ingenuo, ma di certo il suo modo di dipingere e trasfigurare la realtà ci contaminò tutti e, come da consuetudine gli allievi si rifacevano un po’ tutti al maestro come nelle botteghe rinascimentali o in certe nuove factory.
Daniel organizzò mostre collettive ed acquistò anche quadri che promosse in varie esposizioni ed è stato, per molto tempo, il mio pigmalione (ma non ero l’unico a cui dedicava molte attenzioni) e spesso, quando rientrava dai suoi lunghi pellegrinaggi o a Nizza o da Israele, avevamo modo di incontrarci e, come l’ultima volta in un estate di qualche anno fa, in occasione di una mostra a San Vincenzo, scambiare amichevoli chiacchiere.
Sono convinto che molto dello stile del mio disegno derivi da quell’esperienza artistica, certe durezze e certe spigolosità del mio disegno sono frutto di elaborazioni provenienti da quegli anni, gli anni in cui si cresce e ci si forma e nei quali tutto ciò che entra in contatto con la nostra sensibilità diventa sostanza. Daniel Schinasi entra perciò di diritto nella mia storia scrivendo un capitolo importante e imprescindibile, con un peso specifico enorme, un peso di cui gli sarò sempre grato e che oggi nel momento della sua scomparsa, diventa un’eredità di cui farò per sempre tesoro.